“La salute non ha mai prodotto niente.
L’infelicità è un dono. Io mangio solo per nutrire il dolore.
La preparazione alla morte dura una vita intera.”
Alda Merini
Numerosi artisti del Novecento si sono misurati con la rappresentazione di beni di consumo e cibo legandosi strettamente anche in modo provocatorio alla società del tempo.
Basti pensare alle Campbell’s e alle bottiglie di Coca Cola di Andy Warhol, o agli enormi e soffici sandwich di Oldenburg fino ad arrivare alle performance di Vanessa Beecroft che mettevano a tavola modelle anoressiche.
Nella società contemporanea le donne sembrano avere un difficile rapporto col nutrimento. Al cibo e all’atto del nutrirsi si danno generalmente significati che talvolta assumono connotazioni decisamente patologiche, e che prescindono il solo atto di mangiare, come indica il dibattito sociale attuale che tiene i riflettori sempre accesi. Le artiste invitate in mostra non si sono risparmiate nel cercare di definire in modo intrigante, assertivo e poco politically correct l’assoluta ambiguità del rapporto tra femminilità e atto nutritivo, cercando di creare un’iconografia segnica che riporta ad un’azione elementare per non esplicitandone direttamente il contenuto.
E’ il caso di Daniela Alfarano, che il suo Corpo fragile – una croce formata da sei piccole piume delineate virtuosamente col bianco e nero della grafite – sottolinea la sofferenza e la fragilità interiore del voler essere leggeri a tutti i costi, fino quasi a scomparire dentro al senso di inadeguatezza provato davanti ad un corpo che non si riesce ad accettare. Una solitudine marcata dalla ricerca di una purezza eterea e primigenia che a volte sfiora la patologia. A questo concetto si avvicinano anche la ricerca di Tamara Ferioli sulla Limerence, l’ossessione amorosa che può portare a stati compulsivi, descritta con il fondersi del segno leggero della matita e i fili dei suoi capelli ramati che si aggrovigliano sulla sottigliezza della carta giapponese, o la tavola di famiglia apparecchiata con stoviglie borchiate e armate di Ketra, dal titolo eloquente Protect me from myself che suggerisce un tentativo di autoprotezione da parte di un’ipotetica figlia, disturbante come lo specchio minaccioso che la riflette e mostra una modalità tossica di nutrirsi.
Una famiglia che sebbene spesso fautrice di disturbi alimentari talvolta favorisce sentimenti nostalgici, come nella Teapot-teiera di ricordi di Oriella Montin che evoca coi suoi profumi un’accoglienza di tempi ormai passati, fissandola in un’immagine eterna. Diverso è il pane chiodato imbevuto di vino Holy bread che fa riferimento invece non solo al nutrimento – simbolo del Corpo di Colui che nutre l’anima della cristianità col suo sacrificio eterno, riscattandola dalle sue colpe, ma anche alla croce quotidiana delle persone umane. Luogo per eccellenza metafora di una precisa condizione esistenziale è la cucina che per Marina Gasparini si trasforma in walking words, parole in cammino su ipotetici muri di stoffa, frasi trasparenti e attraversabili della doppia lettura, in recto e verso, che accomunano il passeggiare allo scrivere come Michel de Certeau o di altri filosofi e giovani poetesse ricamate ad uncinetto sulle pareti, che alludono alla scrittura come casa abitabile e luogo sovversivo. Elementi legati al femminile sono da sempre le scarpe che nel lavoro fotografico dell’esordiente Silvia Marchesini alludono alla sensualità, alla volontà di apparire e si uniscono alla bilancia di antica memoria per stigmatizzare il binomio sociale “moda – controllo del peso” che richiede un’estrema perfezione al limite della follia. Ma non solo. Le scarpe laccate di rosso sono messaggio dietro all’ironia dell’ossimoro di una fragilità imperfetta e di un’anima addolorata che non ha un peso.
Anche Sonia Andreani ritorna sul corpo, ricreandone lo stereotipo. In Ogm-setting le figure femminili ritratte senza abiti addosso, simbolo di una bellezza pura e iconica come fossero ninfe contemporanee, sono inscatolate in un sorta di sarcofago metallico che funge da prigione costrittiva. Una donna ridotta a oggetto e cibo di cui sfamarsi, vittima sacrificale dell’ingordigia del suo carnefice. E se le donne sono i primi bersagli delle disfunzioni alimentari, sottomesse e soggiogate dai loro disturbi e dalla contingenza sociale, anche le bambine ne sono inconsapevolmente viatico, mentre accettano le caramelle dagli sconosciuti, quelle coloratissime e golose uscite dalle pennellate di Giovanna Sottini così apparentemente innocue nei loro colori sgargianti in realtà subdole e ambigue nel loro mostrare una piaga infantile tutt’altro che risolta.
Scritto da Francesca Baboni
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